“Ce n’ho pochissimo, non basta nemmeno per un giro”,
borbottava Max sbriciolando un microscopico pezzo di hashish che aveva
raccattato da un suo contatto la mattina fuori da scuola. Non staccava gli
occhi dalla cartina, timoroso di perdere anche solo una briciola di quella
minuscola pallina.
“Aggiungiamoci un po’ di thé insieme, mi hanno detto che si
sballa anche con quello”, Virginia si era inserita come se sapesse tutto lei.
Lo faceva sempre, forte di una famiglia che le aveva insegnato a non
dimenticare mai che lei era una ricca borghese, un’altra cosa rispetto a quei
sui amici capelloni e proletari, figli di impiegati quando andava bene, sennò
ancora peggio. Lei oscillava come un corpo in perenne disequilibrio: un momento
pendeva pericolosamente verso lo snobismo insopportabile, subito dopo la
trovavi all’estremo opposto, pronta alle esperienze più ardite. Lei era quella
più “avanti”, sembrava non avere paura, anzi trascinava gli altri verso tutto
ciò che rappresentava la trasgressione: le droghe disponibili le provava tutte,
ma non spendeva mai una lira per comprarle, andava a scrocco.
Era anche l’unica che aveva provato ad avere rapporti
sessuali completi… o quasi.
Penetrazione sì, ma solo in parte, per evitare di
lacerare l’imene e perdere la verginità. Non si sa mai, potrebbe servire un
domani, magari potrebbe pentirsi di queste sue libertà e desiderare di
rientrare nei ranghi. I suoi ragazzi – ne cambia uno la settimana, solo Lino è
durato quasi un mese – sono perciò costretti a semipenetrazioni misurate col
centimetro affinché non distruggano la sua personale barriera fra la
rispettabilità borghese e lo spirito dei tempi nuovi che impongono ben altri
costumi e comportamenti.
Sul giradischi un 33 giri nuovo, appena uscito nei negozi.
Una musica strana che sembrava
avvicinarsi pericolosamente ai ritmi latino-americani che piacevano ai nostri
genitori (dunque non a noi), per poi allontanarsene verso i suoni più duri del
rock. L’aveva portato Max, l’unico a poterselo permettere, insieme con i
capelli lunghi e la libertà di uscire fino alle 23, non tutte le sere.
Tutte
cose che noi ci sognavamo: qualche volta il sabato fino alle dieci, di capelli
lunghi nemmeno a parlarne, controllo asfissiante e trattamento sbrigativo. Max
aveva una famiglia che gli stava abbastanza addosso, ma non nel modo con cui lo
facevano i nostri genitori, loro preferivano responsabilizzare questo ragazzone
che a 15 anni superava già il metro e ottanta e ancora non accennava a
fermarsi. Avevano un dialogo, si diceva allora, e noi eravamo un po’ invidiosi
di questa sua realtà. Ci chiedevamo spesso come sarebbe stato se anche a casa
nostra avessero fatto così.
“E’ un gruppo americano, si chiama Santana”, aveva
borbottato Max mentre continuava a
rollare un cannone fatto di molte cartine, tanto thè preso dalle bustine
che Virginia aveva procurato e il pochissimo hashish che possedeva, “sono
forti, fanno una musica strana, ma davvero psichedelica. Guardate la copertina,
che capite”.
Claudia - detta “la bimba” perché era davvero piccola di
statura ed era anche l’unica a non aver ancora compiuto i 15 anni – si avvicinò
a Max con i fiammiferi per dare il via al giro. Insieme alla canna faceva il
giro anche la copertina del disco, un dito negli occhi per gente come noi
appena uscita dal beat italiano, non ancora del tutto disamorati dell’Equipe 84
e dei Nomadi. Un altro mondo, un’altra cosa, proprio come la musica che usciva
dal giradischi. Zitti a contemplare le immagini, soprattutto a ricercare quello sballo da canna, a cercare
di combinare l’esperienza della musica con un po’ di evasione da fumo.
“Questa si chiama Samba
pa ti, voglio provare a suonarla adesso… senti che roba”, disse Max
alzandosi dal divano dove era sprofondato con la sua nuova amica (la vedevamo
la prima volta) per prendere la chitarra che temeva nella custodia rigida e che
non aveva ancora sfoderato. Tornò al suo posto e cominciò a cercare le note
giuste, mettendo e rimettendo il pezzo
almeno venti volte.
“Dai, manda avanti ‘sto disco, facci sentire gli altri
pezzi. Ce ne sono di più belli. Black
Magic Woman per esempio è formidabile, ma quello che mi piace di più è Se a cabo”, sentenziava Claudia con aria
saputa, “Tutto il disco è bello, loro sono fortissimi. Li avete visti nel film
di Woodstock, quando hanno suonato Soul
Sacrifice? Quel batterista assatanato mi ha fatto impazzire”
Il film era appena uscito nei cinema di prima visione e
tutti gli altri abbassarono lo sguardo per sfuggire alla dichiarazione di non
averlo ancora visto, in attesa che passasse nelle più economiche seconde
visioni. L’eco lo avevano sentito tutti, ma il film non l’avevano potuto vedere
e si erano limitati a farselo raccontare dai più fortunati. Lo stesso accadeva
con il film di cui tutti parlavano a scuola, “Lacrime e Sangue”, una specie di
corso di addestramento in due ore scarse su come occupare una scuola, praticare
la non violenza, scopare per superare quel senso di inferiorità sociale (e non
solo) che molti provavano anche se non l’avrebbero mai confessato.
E la chitarra di Carlos a segnare il confine fra l'impossibile, l'esotico, l'oltre e le aspirazioni confuse di un mondo diverso, finalmente privo di complessi di inferiorità, di paure sociali e di limiti al possibile.
settembre 1970
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