mercoledì 8 febbraio 2017

Musiklife: Abraxas

“Ce n’ho pochissimo, non basta nemmeno per un giro”, borbottava Max sbriciolando un microscopico pezzo di hashish che aveva raccattato da un suo contatto la mattina fuori da scuola. Non staccava gli occhi dalla cartina, timoroso di perdere anche solo una briciola di quella minuscola pallina.
“Aggiungiamoci un po’ di thé insieme, mi hanno detto che si sballa anche con quello”, Virginia si era inserita come se sapesse tutto lei. Lo faceva sempre, forte di una famiglia che le aveva insegnato a non dimenticare mai che lei era una ricca borghese, un’altra cosa rispetto a quei sui amici capelloni e proletari, figli di impiegati quando andava bene, sennò ancora peggio. Lei oscillava come un corpo in perenne disequilibrio: un momento pendeva pericolosamente verso lo snobismo insopportabile, subito dopo la trovavi all’estremo opposto, pronta alle esperienze più ardite. Lei era quella più “avanti”, sembrava non avere paura, anzi trascinava gli altri verso tutto ciò che rappresentava la trasgressione: le droghe disponibili le provava tutte, ma non spendeva mai una lira per comprarle, andava a scrocco.
Era anche l’unica che aveva provato ad avere rapporti sessuali completi… o quasi.
Penetrazione sì, ma solo in parte, per evitare di lacerare l’imene e perdere la verginità. Non si sa mai, potrebbe servire un domani, magari potrebbe pentirsi di queste sue libertà e desiderare di rientrare nei ranghi. I suoi ragazzi – ne cambia uno la settimana, solo Lino è durato quasi un mese – sono perciò costretti a semipenetrazioni misurate col centimetro affinché non distruggano la sua personale barriera fra la rispettabilità borghese e lo spirito dei tempi nuovi che impongono ben altri costumi e comportamenti.
Sul giradischi un 33 giri nuovo, appena uscito nei negozi. Una musica strana  che sembrava avvicinarsi pericolosamente ai ritmi latino-americani che piacevano ai nostri genitori (dunque non a noi), per poi allontanarsene verso i suoni più duri del rock. L’aveva portato Max, l’unico a poterselo permettere, insieme con i capelli lunghi e la libertà di uscire fino alle 23, non tutte le sere. 
Tutte cose che noi ci sognavamo: qualche volta il sabato fino alle dieci, di capelli lunghi nemmeno a parlarne, controllo asfissiante e trattamento sbrigativo. Max aveva una famiglia che gli stava abbastanza addosso, ma non nel modo con cui lo facevano i nostri genitori, loro preferivano responsabilizzare questo ragazzone che a 15 anni superava già il metro e ottanta e ancora non accennava a fermarsi. Avevano un dialogo, si diceva allora, e noi eravamo un po’ invidiosi di questa sua realtà. Ci chiedevamo spesso come sarebbe stato se anche a casa nostra avessero fatto così.
“E’ un gruppo americano, si chiama Santana”, aveva borbottato Max mentre continuava a  rollare un cannone fatto di molte cartine, tanto thè preso dalle bustine che Virginia aveva procurato e il pochissimo hashish che possedeva, “sono forti, fanno una musica strana, ma davvero psichedelica. Guardate la copertina, che capite”.
Claudia - detta “la bimba” perché era davvero piccola di statura ed era anche l’unica a non aver ancora compiuto i 15 anni – si avvicinò a Max con i fiammiferi per dare il via al giro. Insieme alla canna faceva il giro anche la copertina del disco, un dito negli occhi per gente come noi appena uscita dal beat italiano, non ancora del tutto disamorati dell’Equipe 84 e dei Nomadi. Un altro mondo, un’altra cosa, proprio come la musica che usciva dal giradischi. Zitti a contemplare le immagini, soprattutto  a ricercare quello sballo da canna, a cercare di combinare l’esperienza della musica con un po’ di evasione da fumo.
“Questa si chiama Samba pa ti, voglio provare a suonarla adesso… senti che roba”, disse Max alzandosi dal divano dove era sprofondato con la sua nuova amica (la vedevamo la prima volta) per prendere la chitarra che temeva nella custodia rigida e che non aveva ancora sfoderato. Tornò al suo posto e cominciò a cercare le note giuste, mettendo e  rimettendo il pezzo almeno venti volte.
“Dai, manda avanti ‘sto disco, facci sentire gli altri pezzi. Ce ne sono di più belli. Black Magic Woman per esempio è formidabile, ma quello che mi piace di più è Se a cabo”, sentenziava Claudia con aria saputa, “Tutto il disco è bello, loro sono fortissimi. Li avete visti nel film di Woodstock, quando hanno suonato Soul Sacrifice? Quel batterista assatanato mi ha fatto impazzire”

Il film era appena uscito nei cinema di prima visione e tutti gli altri abbassarono lo sguardo per sfuggire alla dichiarazione di non averlo ancora visto, in attesa che passasse nelle più economiche seconde visioni. L’eco lo avevano sentito tutti, ma il film non l’avevano potuto vedere e si erano limitati a farselo raccontare dai più fortunati. Lo stesso accadeva con il film di cui tutti parlavano a scuola, “Lacrime e Sangue”, una specie di corso di addestramento in due ore scarse su come occupare una scuola, praticare la non violenza, scopare per superare quel senso di inferiorità sociale (e non solo) che molti provavano anche se non l’avrebbero mai confessato. 
E la chitarra di Carlos a segnare il confine fra l'impossibile, l'esotico, l'oltre e le aspirazioni confuse di un mondo diverso, finalmente privo di complessi di inferiorità, di paure sociali e di limiti al possibile.

settembre 1970

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