martedì 3 luglio 2018

#MUTA


image Era diventata muta all’uscita dal cimitero, alla fine della breve cerimonia per la sepoltura del figlio. Parenti e amici si avvicinavano a lei e alle sue figlie, borbottavano parole di circostanza, qualcuno piangeva, qualcun altro le suggeriva di farsi coraggio e di ricominciare a vivere per le sue ragazze e per i nipotini che tanto la adoravano. Lei rispondeva a tutti usando gli occhi, la  mascella contratta così che la dentatura appariva in evidenza sulla pelle chiarissima, come se la parte inferiore del suo viso fosse quella di un teschio coperto da un pezzo di stoffa ben teso. Sul momento nessuno ci aveva fatto caso – come immaginare che potesse essere più semplice e meno agghiacciante di così affrontare una tragedia come questa? – e ancora i convenuti non sembravano cogliere il cambiamento che era intervenuto in lei. Quando provi ad accomiatarti da una madre che ha appena sepolto il figlio, magari a consolarla con qualche parola affettuosa, non fai certo troppo caso a lei. Sei troppo attento a non dire o fare cose sbagliate, a toglierti velocemente dall’impiccio e a tenere lontano il pensiero di come ti sentiresti se fossi tu al suo posto, poi a reprimere la soddisfazione di non esserlo. 
Dunque andavano bene quelle risposte date con gli occhi, quel suo sguardo fra il rassegnato e lo spento, quei guizzi improvvisi che testimoniavano l’esistenza di un pensiero interiore residuo, di una sofferenza immensa impastata all’incredulità delle prime fasi del lutto. Proprio non ce la faceva ad accettare l’idea che suo figlio non c’era più, che non sarebbe più tornato da lei in silenzio a ogni fallimento e pieno di chiacchiere e sorrisi ad ogni successo.
Eva, la figlia maggiore, la teneva sottobraccio e cercava con gli occhi il marito che fino a poco prima se ne era stato in disparte coi bambini a qualche passo dalla bara e dal sacerdote che benediceva. Di lui i bambini sentivano solo la voce stentorea, la visuale era coperta dagli amici e dai parenti dello zio, quello coricato nella bara, e sembrava che non volessero smetterla di piangere. Non capivano, erano troppo piccoli e un po’ spaventati dal vedere la nonna e i loro genitori piangere senza freni, per questo cominciavamo ad agitarsi per attirare l’attenzione, proprio come facevano alle feste di famiglia quando, senza nessun preavviso, decidevano che la loro pazienza era finita e cominciavano a combinare guai. Avvertivano confusamente l’enormità del dolore e dello straniamento, non sapevano dare un nome, ma sapevano di essere partecipi di un cambiamento, di un passaggio.  Adesso non c’erano più, lì vicino all’albero lei guardava in giro per trovarli, convinta che ristabilire il contatto visivo con la sua famiglia avrebbe accorciato la tortura che stava vivendo, lì con sua madre e ricevere le condoglianze per la morte del suo unico fratello maschio, il minore dei tre, quello che anche lei aveva protetto per tutta la vita.
Marito e figli erano in auto e aspettavano chiacchierando. Era inutile che continuassero a stare lì, a sottoporgli domande sempre più complicate su dove fosse finito lo zio, sul perché la nonna non li avesse neanche salutati, sulle ragioni per cui non avevano visto la mamma nei giorni precedenti e su un’infinità di altre storie e pensieri che attraversavano la loro mente e davano spessore all’ impazienza di tornare a casa. Via da quella desolazione, da tutte quelle lacrime, con papà e mamma finalmente normali.
Eva, terminata la sua ricerca infruttuosa con un giro completo di visuale, immaginò da sola che il marito avesse scelto di attenderle fuori dal cimitero. Un pensiero di ringraziamento per la delicatezza del marito e per le premure di cui aveva anche stavolta dato mostra che la fecero commuovere. Spuntarono altre lacrime, queste di gratitudine, leggere e liberatorie. Sua madre continuava a non versarne nessuna. Forse le aveva già usate tutte, non aveva fatto altro che disperarsi nelle ultime due settimane, il figlio in una cella frigorifera all’obitorio e tutti loro a casa ad aspettare la data del funerale. Per quattordici interminabili giorni aveva voluto ripetere la visita quotidiana alla sala autoptica - avrebbe voluto che le mostrassero il cadavere del figlio, ma erano stati irremovibili-  e il successivo ritorno a casa seguito dal pianto irrefrenabile che ci era immancabilmente concluso per sfinimento. Stramazzava sul divano e si addormentava per qualche ora, in attesa di risvegliarsi verso sera per trascorrere la notte a guardare l’album delle foto di famiglia, finalmente quasi in pace perché sollevata dalla necessità di dare retta agli altri.
Sentiva la bocca inchiodata, la faccia paralizzata e gli occhi liquidi, vedeva bene solo ciò che era lontano. Nessun suono in auto, niente neanche una volta arrivata casa. Un cenno col capo per respingere l’offerta di un caffè da parte di sua figlia Sara, uno sguardo distante ai figli di Eva che erano arrivati col padre poco dopo di lei e che la guardavano incerti se correre ad abbracciarla come al solito o ritirarsi in buon ordine in qualche angolo della casa a giocare fra loro.
Optarono per la seconda e se ne andarono nella loro camera, quella che era stata della mamma e che ancora ne conservava tracce consistenti nell’arredamento e nei colori dei tendaggi. Eppure adesso ci dormivano loro, abbastanza spesso, quando venivano dalla nonna. A volte c’era anche lo zio, si dissero sottovoce. L’occhio corse alla porta della sua camera, quella che la nonna aveva sempre conservato fuori dalla loro portata di guastatori, adesso cosa sarebbe diventata? Forse lo zio sarebbe tornato.
In cucina i parenti chiacchieravano, qualcuno ancora piangeva. Lei era seduta sul divano, composta come se fosse in visita a casa sua, guardava e non vedeva. Una nuova consapevolezza si andava facendo strada nel suo dolore cupo: la fase sonora della sua vita della sua vita era finita: Ne cominciava un’altra senza parole, frasi, ragionamenti, discorsi, suoi e del suo prossimo. Ancora non aveva chiaro che cosa ne avrebbe fatto della musica e della lettura, le consolazioni della sua vita. C'era tempo per pensarci, tutto il tempo che le serviva.

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